Su questo carretto che mi porta verso le fascine, sento il dolore e lo strazio che mi serra il cuore, la mia lingua è prigioniera dicono loro i dotti sapienti vestiti di bianco e nero che è in giova, è un'altra tortura l'ultima ma la peggiore, hanno paura delle mie ultime parole, che possano rimanere nella mente di questi uomini che come ad una festa arrivano in Campo dei fiori per assistere alla morte di un eretico.
Ritorno con la mente ai tempi di gioventù, allora non mi facevo chiamare Giordano e per tutti il mio nome era Filippo i miei genitori me lo avevano dato in onore di Filippo II Re di Spagna, haimè quel nome non mi portò mai fortuna e già giovane lo abiurai, senza fatica come imposto dalla regola monastica per sentirmi più comodo nei panni e nelle vesti di Giordano.
Alla mente il ricordo della mia infanzia sembra scemare, i verdi prati di Nola in primavera e le notti al profumo di una campagna, mia terra dalla quale sono troppo presto scappato a te lascio un mio ultimo pensiero, mentre la morsa mi serra e le ferite mai rimarginate dell'anima sono sempre più allo scoperto.
Ecco piano arrivo sempre più vicino al centro di questa piazza e la immagino come sarà domani, se qualcuno ricorderà il mio nome, se questa barbaria avrà un giorno il suo compimento, mi consola il pensiero che come la luce che inonda il mattino e spazza la notte, ogni cosa malvagia alla fine avrà termine.
Questo pensiero per un attimo mi rinfresca, mi scorre davanti la mia vita, rivedo come scene che si sugguono il mio maestro più amato Teofilo da Vairano, i suoi insegnamenti nel cortile del convento Domenicano e poi i miei viaggi, la mia fuga da Napoli e il rifugio a Roma nella Chiesa di Santa Maria sopra Minerva e poi le città che mi hanno visto peregrinare, Padova, Milano, Chambèry e Ginevra e poi ancora La Germania e Londra.
Mi hanno chiesto di abiurare tutto quello che ho scritto, in ginocchio davanti all'Inquisizione ho ascoltato la mia condanna a morte e guardandoli fiero ho solo detto «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» (Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla).
Ecco sono al termine del mio ultimo viaggio, scendo tremante dal carro mentre la gente mi urla condanne per cose che non conoscono, salgo gli ultimi gradini sono sereno, non ho paura neanche delle fiamme, sono lo scotto da pagare per le mie idee, sono sicuro stasera volerà in cielo l'anima mia e da lassù guarderò la vostra meschina empietà.
Ritorno con la mente ai tempi di gioventù, allora non mi facevo chiamare Giordano e per tutti il mio nome era Filippo i miei genitori me lo avevano dato in onore di Filippo II Re di Spagna, haimè quel nome non mi portò mai fortuna e già giovane lo abiurai, senza fatica come imposto dalla regola monastica per sentirmi più comodo nei panni e nelle vesti di Giordano.
Alla mente il ricordo della mia infanzia sembra scemare, i verdi prati di Nola in primavera e le notti al profumo di una campagna, mia terra dalla quale sono troppo presto scappato a te lascio un mio ultimo pensiero, mentre la morsa mi serra e le ferite mai rimarginate dell'anima sono sempre più allo scoperto.
Ecco piano arrivo sempre più vicino al centro di questa piazza e la immagino come sarà domani, se qualcuno ricorderà il mio nome, se questa barbaria avrà un giorno il suo compimento, mi consola il pensiero che come la luce che inonda il mattino e spazza la notte, ogni cosa malvagia alla fine avrà termine.
Questo pensiero per un attimo mi rinfresca, mi scorre davanti la mia vita, rivedo come scene che si sugguono il mio maestro più amato Teofilo da Vairano, i suoi insegnamenti nel cortile del convento Domenicano e poi i miei viaggi, la mia fuga da Napoli e il rifugio a Roma nella Chiesa di Santa Maria sopra Minerva e poi le città che mi hanno visto peregrinare, Padova, Milano, Chambèry e Ginevra e poi ancora La Germania e Londra.
Mi hanno chiesto di abiurare tutto quello che ho scritto, in ginocchio davanti all'Inquisizione ho ascoltato la mia condanna a morte e guardandoli fiero ho solo detto «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» (Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla).
Ecco sono al termine del mio ultimo viaggio, scendo tremante dal carro mentre la gente mi urla condanne per cose che non conoscono, salgo gli ultimi gradini sono sereno, non ho paura neanche delle fiamme, sono lo scotto da pagare per le mie idee, sono sicuro stasera volerà in cielo l'anima mia e da lassù guarderò la vostra meschina empietà.
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